INNIG – Recital, 24 giugno 2017 – Testimonianze dal pubblico.

Il gusto, la classe, la qualità, la passione, la generosità, la professionalità, la follia… Nell’ascoltare, avevo la sensazione di assistere a qualcosa di irripetibile, autentico, prezioso, che andava oltre la musica, oltre i suoni e la poesia, attraverso e oltre la cantante stessa. (Fabrizio P. – danzatore)

Cresciuta con Zappa, gli Area, De Andrè e un mucchio di altri spettinati spalmati lungo gli anni ’70, il canto lirico mi è estraneo, ora come allora.

Se sabato alle cinque, malgrado la calura spietata, ho imboccato l’autostrada per Bergamo, è stato per lei, Gabriella Sborgi. Onoravo l’amicizia, la simpatia, la sensibilità inattaccabile che filtra il suo sguardo sulle cose. Non andavo per la musica: non per l’udito, bensì per il cuore.

Sala Greppi è affrescata, fitta, poltrone di velluto, anche il sipario, le quinte, la temperatura dell’ambiente è fuori controllo. Aspettiamo, ma non troppo. E’ arrivata con il pianista, ci ha salutato, ci ha reso benvenuti e ci ha introdotti al canto. Come un bambino volevo dire – la conosco, è amica mia – ma l’ambiente dei teatri intimidisce e per fortuna ho solo strizzato l’occhio alla mia vicina di posto, anche lei amica, quando basta un sottinteso per rivelare tutto.

La voce misurata, quasi timida in quel momento, ci avvicina alle scelte del recital e lascia intravedere il filo rosso tra i brani, tantissimi possibili in un repertorio che potrebbe spaziare tra molti secoli di arte. Gabriella sembra che dica: dimenticate di me, non io, non me, la musica, seguite la musica. Segui lei!

Io però non riesco a non guardarla, così mobile, attraversata dal suono. Guardo i muscoli del ventre riempire e svuotare il vestito, guardo le labbra e la bocca, cerco le tracce che le permettono il controllo del suo misterioso strumento. Mi sventolo ma non ho più caldo, i musicisti tessono una trama tra un capitolo e l’altro, Gabriella racconta, mai banale, mai superflua, con la volontà di affermare che gli autori, i testi, le loro lingue vogliono parlarci, che lei è al loro servizio.

Così grazie allo sforzo di comunicare con noi, di aprire un varco tra la platea e gli artisti, ho incontrato la notte buia di Hahn, i fiori e l’acqua, l’acqua e i fiori. Ma quanti fiori hanno visto i poeti del canto? Quello appassito, il ramo di tiglio profumato, i gelsomini, ho visto l’assalto dell’ultima onda, il salice piangente piegato, il tremolio delle stelle, ho sentito le campane e il coltello rovente, il suono argentino del riso, l’estate che appassisce, le navi alla deriva, il cuore fiorire e il cuore scuro, il cielo raggiante, le fresche spose. Ho visto la storia degli uccelli tra gli alberi.

Ho ricordato che la ninna nanna non sempre addormenta e che Britten lo sapeva, ho sentito il tedesco lingua ruvida, diventare gentile.

Perduta nei territori estremi della musica colta, ho dimenticato di essere lì per Gabriella. Viaggiare stando seduti in poltrona ci rende agili e leggeri, il biglietto per il volo costa meno di qualunque altro.

Poi Kurt Weill mi ha riavvicinato. Come un bambino volevo dire: – questa la so! – e mentre ritornavo al più noto, mentre riconoscevo il mio nesso tra la musica e l’ascolto, per qualche momento ho avuto nostalgia di Liszt, Berg e Mahler che non avrei trovato più.

Giusto un silenzio, prima che la sorpresa di un tango e poi due (irruzione inattesa, giravolta, piroletta del sogno), giusto un attimo prima che l’espressività del suo corpo e la maschera del viso ci spiazzassero e mi facessero venir voglia di rubare la mia amica al suo lavoro, la mia vicina di posto al suo ruolo e correre con loro in milonga, sognando Buenos Aires.

Ho visto solo il cenno di uno sforzo, mai nella voce, mai in un suono grave, in un cambio repentino, ma solo e sempre nell’intenzione di portarci con sé in territori alieni, quelli che Gabriella canta magari sotto la doccia e di cui non conoscevo l’esistenza. L’invito fiducioso a incontrare un’altra forma, infinite sono le forme del diverso, una mano che si allunga invitandoci tutti allo stesso banchetto. (Simona Giacomelli, coautrice de L’Uomo Nero ed. Caraco’. Milano, 26 giugno 2017)

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